L’ordinanza in commento trae origine da una vicenda processuale che ha visto due ex coniugi contrapporsi in merito all’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne ed economicamente non autosufficiente, affrontando una tematica divenuta, ormai, alquanto rilevante.
In primo grado, il Tribunale di Grosseto aveva disposto la riduzione dell’assegno mensile di mantenimento per il figlio, ormai ultratrentenne, da 300,00 a 200,00 euro.
Successivamente, in sede di appello, la Corte territoriale di Firenze revocava l’assegno, basando la propria decisione sulla circostanza che l’obbligo di mantenimento cessa in relazione alla raggiunta capacità di mantenersi del proprio figlio, la quale deve essere considerata come presunta qualora ci si riferisca a persone la cui età anagrafica sia oltre i trent’anni, ovvero quando una persona, generalmente, debba presumersi autosufficiente da ogni punto di vista, anche economico. Avverso detta decisione proponeva ricorso la madre del “ragazzo” e resisteva, con controricorso, il padre dello stesso.
Il ricorso della donna si articolava in due punti, il primo dei quali relativo alla violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., giacché si formulava un giudizio sul fatto che censurava «affermazioni che non sono proprie della Corte d’appello, ma del giudice di primo grado, quale il riferimento ad un reddito annuo di oltre ventimila euro» (cfr. ordinanza in commento).
Il secondo motivo di ricorso, ben più importante, censurava la violazione e falsa applicazione degli artt. 147, 148, 315-bis, 326-bis, 337-sexies e 337-septies c.c., per avere il giudice di merito argomentato, su base presuntiva, che oltre i trent’anni una persona debba ritenersi autosufficiente, senza considerare la effettiva situazione economica del figlio trentatreenne. In pratica, il giudice di merito avrebbe travisato pressoché l’intero impianto normativo caratterizzante il regime giuridico della prole.
Sul punto, gli Ermellini hanno articolatamente dimostrato l’infondatezza della censura di parte ricorrente partendo, in primis, dall’art. 337-septies, co. 1°, c.c., secondo cui «Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto». Dalla lettera della disposizione, infatti, traspare chiaramente come l’obbligo di mantenimento del figlio sia tale fino al raggiungimento della maggiore età, dopo la quale diventa una mera facoltà trasformabile in obbligo unicamente per via giudiziale ovvero per via morale.
Ebbene, dopo aver sgomberato il campo da ogni dubbio circa l’interesse effettivamente tutelato con siffatta disposizione (che sovente è oggetto di “invasioni” da parte degli interessi di coniugi separati), viene evidenziato che l’elemento caratterizzante la norma non risiede nella “non-indipendenza” economica del figlio quanto, piuttosto, nel potere decisionale, rimesso al giudice e ampiamente basato sul suo prudente apprezzamento (cfr. Cass. civ., 22 giugno 2016, n. 12952; Cass. civ., 6 aprile 1993, n. 4108; Cass. civ., 12 marzo 2018, n. 5883) circa la previsione o meno della sussistenza di un obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, il quale non è affatto scontato.
Trattasi, quindi, di una valutazione discrezionale del giudice, che non può che basarsi esclusivamente su principi generali concernenti la valutazione dell’impianto probatorio delle parti.
E invero, il giudice di merito non solo dovrà valutare le occupazioni attuali, il mercato del lavoro e, ovviamente, il percorso formativo seguito dal soggetto richiedente, ma sarà tenuto ad ancorare tali valutazioni a considerazioni circa l’età del soggetto stesso, pena il rischio che l’assistenza “perpetua” possa risolversi «in forme di parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani» (così, Cass. civ., 22 giugno 2016, n. 12952, che riprende un concetto espresso già molti anni prima da Cass. civ., 6 aprile 1993, n. 4108).
Poi, presupponendo una necessaria correlazione tra diritto-dovere all’istruzione e all’educazione e diritto al mantenimento, si è pure ribadito che il percorso formativo ed educativo scelto dal soggetto deve essere compatibile con le condizioni economiche dei genitori e anche perseguito con costanza.
Già dalla lettura di queste prime enunciazioni di principio si può affermare che la Corte abbia ormai chiaramente superato la “secca” del “diritto ad ogni costo”. Non solo. Ha sancito infatti l’ingresso, nel campo specifico dei doveri del figlio verso i genitori, del cd. principio di autoresponsabilità.
Citando nuovamente il precedente arresto giurisprudenziale n. 12952/2016, gli Ermellini evidenziano come «l’obbligo di mantenimento non può essere correlato esclusivamente al mancato rinvenimento di un’occupazione del tutto coerente con il percorso di studi o di conseguimento di competenze professionali o tecniche prescelto. Sotto questo profilo la crisi occupazionale giovanile conserva un’incidenza nel senso di dare al parametro dell’adeguatezza un carattere relativo sia in ordine al contenuto dell’attività lavorativa che del livello reddituale conseguente» e precisano che «l’attesa o il rifiuto di occupazioni non perfettamente corrispondenti alle aspettative possono costituire se non giustificate indici di comportamenti inerziali non incolpevoli».
Di conseguenza, è dovere del figlio, una volta terminato il percorso formativo, attivarsi nella ricerca di una posizione lavorativa qualsiasi e idonea a garantirgli un sostentamento autonomo, il tutto in attesa dell’auspicato reperimento di un impiego che risulti effettivamente il più aderente possibile alle proprie aspirazioni soggettive e al proprio percorso formativo, dal momento che non può affatto, questi, pretendere che sia il proprio genitore ad adattarsi alla sua situazione economica. In tal modo, la Corte pone in diretta connessione anche gli artt. 1, 4 e 30 Cost., chiarendo che, se da un lato i genitori sono sì tenuti a mantenere il figlio, quest’ultimo ha un proprio personalissimo dovere di mettere a frutto gli sforzi economici sopportati dai primi, perseguendo costantemente i traguardi formativi e attivandosi senza indugi nella ricerca di un impiego, con la conseguenza che le scelte (sia formative, che lavorative) del soggetto non possono essere chiaramente irragionevoli e prive di buon senso, nonché atte «ad instaurare un regime di controproducente assistenzialismo» (cfr. ordinanza in commento) ai danni del nucleo familiare di provenienza.
Quanto affermato ha altresì rilevanti ricadute sul piano dell’onere probatorio. Infatti, anche se deve essere valutata in concreto, caso per caso, la situazione personale del figlio, non sarà affatto il/i genitore/i convenuto/i a dover dimostrare l’autosufficienza economica di questi, giacché è onere del soggetto richiedente il beneficio allegare e provare compiutamente tutte le circostanze che portino a considerarlo non indipendente dai genitori, ciò per il principio della vicinanza della prova. Il figlio – inoltre – non solo dovrà abbondantemente dimostrare anche «di avere curato, con ogni possibile, impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di avere, con pari impegno, operato nella ricerca di un lavoro» (cfr. ordinanza in commento) ma non potrà eccepire alcunché, in sede di giudizio, sulla posizione patrimoniale genitoriale dal momento che oggetto di giudizio è la propria situazione economica.
Trattasi infine – è bene specificarlo – di un onere probatorio tanto più gravoso quanto più il soggetto aspirante beneficiario sia “avanti con gli anni” e, parallelamente, molto più lieve per un figlio che abbia da poco superato la maggiore età o che stia seguendo un serio e costante percorso di formazione, ciò per il riflesso dovuto alla prova presuntiva, in base alla quale è relativamente agevole considerare ormai in grado di acquisire una indipendenza (se non l’ha già ottenuta, di fatto) un “ragazzo” che abbia raggiunto una certa età.
In conclusione, è evidente come il caso in esame abbia offerto alla Suprema Corte l’occasione per intervenire (nuovamente e correttamente) su una questione degna di rilievo che contraddistingue il tessuto socio-economico del nostro Paese, soprattutto negli ultimi anni. È stato, così, possibile fornire nuova linfa a una giurisprudenza, fino a poco tempo fa, chiaramente minoritaria ma che si mostrava assai più aderente sia al dato testuale della normativa che alla realtà sociale evolutasi in seguito alle crisi economiche che hanno caratterizzato gli anni recenti. Traspare, altresì, una giusta enfasi sui poteri decisionali e di valutazione del giudice di merito, chiamato ad osservare i principi forniti in via nomofilattica dalla Corte, ma sempre calandosi nella realtà concreta del caso specifico. Probabilmente, sulla scorta di siffatto orientamento giurisprudenziale, si potrebbe incentivare l’analisi del comportamento processuale delle parti in sede di udienza, in quanto elementi di prova sarebbero adeguatamente ricavabili anche dalla condotta tenuta dal richiedente laddove il giudice, secondo il suo prudente apprezzamento ex art. 116, co. 2, c.p.c, dovesse decidere di interrogarlo ai sensi dell’art. 117 c.p.c.
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