La vicenda alla base dell’ordinanza in commento ha inizio nel 2015, quando con decreto emesso in data 23 aprile, il Tribunale per i minorenni di Ancona dichiarava i coniugi Tizio e Caia decaduti dalla responsabilità genitoriale sulla figlia minore Tizietta che, con decreto del 7 maggio 2012, veniva data in affidamento extra-familiare.
Nel 2018, il medesimo Tribunale per i minorenni dichiarava con sentenza lo stato di adottabilità della minore ai sensi della l. 4 maggio 1983, n. 184.
Il caso giungeva così all’attenzione della Corte d’Appello di Ancona che rigettava il gravame proposto dalla madre Caia, confermando in toto la decisione del giudice di prime cure. La Corte territoriale fondava la propria decisione sull’assunto che, sebbene la madre avesse mostrato interesse per la bambina, cercando reiteratamente di incontrarla, dai fatti verificatisi nel corso degli anni e dalla situazione di difficoltà psicologica ed economica in cui versava, sarebbe emersa la sua consapevolezza di poter svolgere un ruolo esclusivamente secondario nella vita di Tizietta e che, dunque, l’affidamento etero-familiare di quest’ultima poteva costituire per lei l’unica opportunità.
Per tali motivi, alla luce anche della dichiarazione di decadenza di entrambi i genitori dalla responsabilità genitoriale, lo stato di abbandono della piccola doveva essere confermato.
Tizia ricorreva contro la sentenza della Corte d’appello di Ancona per ottenerne la cassazione. Ella lamentava il mancato accertamento, da parte dei giudici d’appello, della sua reale capacità genitoriale e la mancata considerazione dei numerosi tentativi da lei posti in essere al fine di recuperare il rapporto con la figlia, facendo altresì presente come nulla fosse stato fatto da parte dei servizi sociali per favorire il recupero della responsabilità genitoriale.
Il ricorso ai giudici di legittimità invocava, in particolare, il rispetto delle indicazioni fornite dalla CEDU, secondo la quale la rottura dei legami fra il minore e la sua famiglia di origine deve essere presa in considerazione come soluzione estrema, da adottare solo ove tutte le misure necessarie a garantire e preservare il rapporto tra il bambino e la sua famiglia siano risultate impraticabili.
La ricorrente fondava il ricorso su quattro motivi: denunciava, nello specifico, la violazione dell’art. 112 c.p.c., degli artt. 1, 8, 10 e 15, l. n. 184/1983 e dell’art. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1°, nn. 3 e 4, c.p.c..
In primo luogo si lamentava la violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto la Corte d’appello non si sarebbe espressamente pronunciata sul motivo di appello, con il quale si deduceva la mancanza di motivazione della decisione di primo grado. Quest’ultima, infatti, affermava che la ricorrente avrebbe ammesso che un «un affido etero-familiare sarebbe stato più rispondente all’interesse della bambina», quando invece la ricorrente non aveva mai acconsentito all’adozione legittimante ma solo, eventualmente, a quella mite. A tal fine si sottolineava altresì come la stessa sentenza pronunciata dal Tribunale per i minorenni avesse fatto riferimento esclusivamente ad un consenso all’affido etero-familiare, non di certo ad un’adozione legittimante.
La ricorrente si doleva poi del fatto che la Corte d’appello non avesse compiuto un effettivo ed adeguato accertamento della sua capacità genitoriale concreta ed attuale, tenuto conto che la minore veniva sottratta alla madre per essere data in affidamento all’età di due mesi, nel 2012, e che la stessa, nonostante le varie istanze presentate al Tribunale per i minorenni, era riuscita ad avere un contatto con lei solo poche volte nel corso del 2014. Il giudice d’appello così, con motivazione del tutto carente, avrebbe erroneamente ritenuto che «i ritardi, le difficoltà logistiche e la ritrosia della minore», ovvero gli impedimenti materiali della madre ad intrattenere rapporti con la piccola, avessero determinato nella ricorrente un adattamento ad un ruolo secondario nella vita della minore, «nella consapevolezza dei suoi limiti in fatto di responsabilità verso di lei, in tutti gli aspetti della genitorialità». Su queste argomentazioni la Corte giungeva a concludere che si trattasse di «limiti soggettivi e non solo materiali», essendosi la madre adattata, a fronte degli impedimenti suddetti, ad essere una figura di secondo piano. Non essendo tali limiti a carattere temporaneo, per la Corte erano certamente ravvisabili «gli estremi dello stato di abbandono».
Si sottolineava poi come il giudice di appello non avesse tenuto in adeguata considerazione l’interesse manifestato dalla madre nei confronti della figlia, i numerosi tentativi da lei posti in essere nel corso del tempo per recuperare il rapporto con la stessa e, invece, avrebbe dovuto svolgere accertamenti in concreto circa le attuali condizioni di vita della madre, il lavoro svolto, il luogo in cui abitava. Il medesimo giudice avrebbe, inoltre, dovuto tenere in debita considerazione che ella non aveva ricevuto alcun intervento di sostegno da parte dei servizi sociali o di altre istituzioni tali da consentirle un progressivo recupero della genitorialità. Nelle stesse relazioni dei servizi sociali, peraltro, emergeva come la ricorrente si fosse dimostrata nel tempo «una persona diversa da quella osservata a ridosso del parto (…) con maggiori possibilità di riprogettare la sua vita», e che la stessa lavorasse «nel campo delle pulizie». Non si teneva poi in considerazione che gli incontri protetti disposti da Tribunale per i minorenni non erano stati effettuati.
La difesa della donna sottolineava anche come gli impedimenti «oggettivi e materiali» incontrati dalla madre nel relazionarsi con la bambina, ai quali aveva fatto riferimento la Corte d’appello, erano consistiti in particolare nel sisma che nel 2016 aveva interessato il comune indicato per gli incontri protetti (comune, fra l’altro, di residenza de genitori affidatari), dal fatto che la minore ignorasse di avere genitori biologici diversi da quelli affidatari, dal fatto «che la stessa minore sarebbe stata turbata dagli incontri con la madre naturale» e, soprattutto, dal fatto che «la madre naturale aveva dimostrato ritrosia (…) per la definizione ancora incerta ed incompleta del loro legame con la bambina a livello ufficiale ed anche giuridico».
Il giudice di secondo grado avrebbe del tutto incongruamente ed illogicamente trasformato tali impedimenti materiali, non di certo imputabili alla madre, in limiti soggettivi e personali della madre naturale, ravvisando in essi la sussistenza dello stato di abbandono della minore e qualificandoli come «non a carattere temporaneo ed emendabile» senza alcun accertamento istruttorio che potesse consentire all’organo giudicante di accertare in concreto una inidoneità attuale della madre a prendersi cura della figlia tale da integrare lo stato di abbandono ai sensi dell’art. 8, l. n. 184/1983.
Infine si lamentava come la Corte territoriale non si fosse allineata ed adeguata alle indicazioni fornite dalla Corte EDU, secondo la quale la recisione dei legami familiari, ai sensi dell’art. 8 CEDU, può essere «giustificata da circostanze del tutto eccezionali, ed impone alle autorità nazionali di adottare misure finalizzate a garantire il diritto del genitore al ricongiungimento con il figlio», come nel caso dell’adozione c.d. “mite” alla quale, peraltro, la ricorrente aveva espressamente prestato il consenso.
L’ordinanza 25 gennaio 2021, n. 1476, ha riconosciuto nel nostro ordinamento lla c.d. “adozione mite”, vale a dire quell’adozione che, a differenza di quella legittimante, non recide rapporti e legami con la famiglia biologica ma preserva e favorisce il contatto fra il minore e la sua famiglia di origine.
I giudici della Suprema Corte, partendo anche dall’invito più volte mosso dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, hanno chiarito che l’adottabilità del minore possa essere dichiarata solo ove lo stato di abbandono sia «endemico e radicale» e vi sia, da parte dei genitori biologici, un’incapacità assoluta ed irreversibile di allevare e curare il figlio tale da poterli considerare come inadeguati a svolgere il loro fondamentale ruolo educativo. L’adozione “legittimante”, pertanto, alla luce delle conseguenze che comporta (acquisto dello stato di figlio degli adottanti in capo all’adottato e cessazione di ogni rapporto dell’adottato con la famiglia d’origine, ai sensi dell’art. 27, commi 1 e 3, l. n. 184/1983), deve essere guardata dal giudice come extrema ratio, dunque come rimedio al quale ricorrere solo laddove l’interesse supremo del minore lo imponga.
In mancanza di siffatti presupposti, il giudice deve tutelare l’interesse del minore a conservare i legami con la propria famiglia d’origine, preservando i rapporti fra questi ed i suoi genitori biologici anche laddove essi risultino deficitari nelle loro capacità genitoriali, arrivando all’adozione legittimante solo nel caso in cui non si possa ravvisare un tale interesse.
Tale arresto costituisce il punto di arrivo di un percorso già intrapreso dagli ermellini con l’ordinanza 13 febbraio 2020, n. 3643, con la quale la medesima Sezione I civile aveva sancito che «l’adozione legittimante è l’estrema ratio a cui si deve pervenire quando non si ravvisa alcun interesse per il minore di conservare una relazione con i genitori biologici, attesa la condizione di abbandono materiale e morale nella quale si verrebbe trovare a vivere».
Con tale ordinanza la Corte aveva aperto al riconoscimento di modelli di adozione mite, fondati sullo stato di semi-abbandono permanente del minore, vale a dire quello stato in cui la famiglia del medesimo, pur non disponendo di strumenti economici adeguati ai suoi bisogni, continua a svolgere un ruolo attivo tale da non permettere di qualificare l’abbandono come totale. Tale stato non consente una dichiarazione di adottabilità, giacché non permette di giustificare una rottura definitiva ed irreversibile dei rapporti del minore con la sua famiglia di origine.
Tornando sul tema, con l’ordinanza del 25 gennaio 2021, è stato precisato che l’adozione legittimante coesiste nell’ordinamento con l’“adozione in casi particolari”, prevista dall’art. 44, lett. d), l. 4 maggio 1983, n. 184 che, secondo gli ermellini, rappresenta una norma di chiusura e, pertanto, deve essere interpretato estensivamente. Da esso, infatti, dopo aver espletato tutti gli opportuni accertamenti ed aver svolto tutte le opportune attività istruttorie, è possibile arrivare a configurare l’“adozione mite”, sì da non recidere completamente il legame fra il minore e la sua famiglia di origine.
La Corte si è così conformata ai principi espressi dalla Corte EDU (specificamente alle sentenze 21 gennaio 2014, Zhou c/Italia e 13 ottobre 2015, S. H. c/Italia), la quale ha affermato che la rottura del legame fra un minore e la propria famiglia biologica costituisce una soluzione residuale, la quale non può disporsi sulla semplice supposizione che, così facendo, verrebbe assicurato al minore un ambiente più favorevole alla sua educazione, ma deve rappresentare il punto d’arrivo di un’indagine completa ed approfondita, da svolgersi caso per caso, volta a valutare la condizione di abbandono materiale e morale del minore e la oggettiva capacità dei genitori biologici.
Su queste basi la Cassazione ha sottolineato come la CEDU, con specifico riferimento all’adozione “mite”, abbia affermato di essere «ben consapevole del fatto che il rifiuto da parte dei tribunali di pronunciare un’adozione semplice risulta dall’assenza nella legislazione italiana di disposizioni che permettano di procedere a questo tipo di adozione” ma che, malgrado ciò, alcuni tribunali italiani “avevano pronunciato, per mezzo di un’interpretazione estensiva dell’art. 44, lett. d), l’adozione semplice in alcuni casi in cui non vi era abbandono». Alla luce di tali considerazioni, per la Corte di Strasburgo, «costituisce un obbligo delle autorità italiane, prima di prevedere la soluzione di una rottura del legame familiare, di adoperarsi in maniera adeguata per far rispettare il diritto della madre di vivere con il figlio, al fine di evitare di incorrere nella violazione del diritto al rispetto della vita familiare, sancito dall’art. 8 CEDU».
In presenza di una situazione di semi-abbandono, dunque, la soluzione di ricorrere all’adozione legittimante e, conseguentemente, di interrompere qualunque rapporto fra il minore ed i suoi genitori biologici, potrebbe risultare non sempre adeguata all’interesse dello stesso, dovendosi invece ravvisare l’opportunità di conservare un rapporto fra questi ed i suoi genitori, in ragione dell’affetto e dell’interesse comunque manifestati nei suoi riguardi.
Nel caso oggetto dell’ordinanza in commento la minore era stata sottratta alla madre nel maggio 2012, all’età di cinque mesi, e per i successivi due anni la genitrice era riuscita ad avere con lei solo due incontri, manifestando sempre la volontà di poter avere con la figlia rapporti continui, seppur saltuari. Nel corso del 2016 poi, il sisma che aveva colpito la zona di residenza della madre aveva reso più difficile gli incontri ma, malgrado ciò, la donna non aveva mai fatto venir meno il suo interesse per la figlia, al punto di opporsi all’adozione legittimante in favore di quella “mite”. Alla luce di ciò il Tribunale per i minorenni, nello stesso anno, aveva sollecitato i servizi sociali a predisporre un calendario di incontri ma il provvedimento era stato del tutto ignorato
La Suprema Corte perciò, alla luce della ricostruzione fattuale effettuata dalla Corte territoriale, ha ritenuto la decisione con la quale la Corte d’appello ha escluso il riavvicinamento fra la madre e la figlia «del tutto illogica e contraddittoria», poiché si era sottratta all’obbligo di compiere tutti gli opportuni accertamenti volti a consentire una forma di adozione “mite”, in grado di garantire alla piccola e alla madre la continuità di un rapporto che, per quanto compromesso, è pur sempre da considerare fondamentale per un corretto sviluppo psico-fisico del minore. Su queste basi la Cassazione ha affermato che «l’esclusione di una piena idoneità della madre (…) non comporta, nondimeno, che la stessa non possa rivestire un ruolo importante e complementare, rispetto a quello svolto dalla coppia affidataria, nella vita della minore e nell’interesse della medesima».
La Corte così, sulla base delle argomentazioni illustrate, ha affermato il principio di diritto al quale dovrà ispirarsi la Corte territoriale in sede di rinvio, secondo cui: «L’adozione cd. legittimante che determina, oltre all’acquisto dello stato di figlio degli adottanti in capo all’adottato, ai sensi dell’art. 27, comma 1°, l. 4 maggio 1983, n. 184, la cessazione di ogni rapporto dell’adottato con la famiglia d’origine, ai sensi del terzo comma, coesiste nell’ordinamento con la diversa disciplina dell’«adozione in casi particolari», prevista dall’art. 44, l. n. 184/1983, che non comporta l’esclusione dei rapporti tra l’adottato e la famiglia d’origine; in applicazione degli artt. 8 CEDU, 30 Cost., 1 1. n. 184/1983 e 315 bis, comma 2, c.c., nonché delle sentenze in materia della Corte EDU, il giudice chiamato a decidere sullo stato di abbandono del minore, e quindi sulla dichiarazione di adottabilità, deve accertare la sussistenza dell’interesse del medesimo a conservare il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali, costituendo l’adozione legittimante una extrema ratio cui può pervenirsi nel solo caso in cui non si ravvisi tale interesse. Il modello di adozione in casi particolari, e segnatamente la previsione di cui all’art. 44, lett d), l. n. 184/1983, può, nei singoli casi concreti e previo compimento delle opportune indagini istruttorie, costituire un idoneo strumento giuridico per il ricorso alla cd. “adozione mite”, al fine di non recidere del tutto, nell’accertato interesse del minore, il rapporto tra quest’ultimo e la famiglia di origine».
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