La qualificazione giuridica dell’attività del caregiver familiare
Di EMANUELA MOROTTI -
Sommario: 1. Definizione di caregiver familiare – 2. La tutela del caregiver come obiettivo dei disegni di legge in materia – 3. Prima ipotesi di qualificazione: gli obblighi di assistenza dei figli verso i genitori – 4. Seconda ipotesi: l’obbligo di prestare gli alimenti – 5. Terza ipotesi: il dovere morale o sociale fondato sul principio di solidarietà familiare – 6. (Segue) I relativi profili problematici.
Definizione di caregiver familiare
Negli ultimi anni sono stati presentati alle Camere diversi disegni di legge che mirano a dare riconoscimento giuridico al cosiddetto caregiver familiare[1], per tale intendendosi la persona che si occupa in maniera continuativa di un altro membro del nucleo familiare che si trova in condizioni di non autosufficienza per problemi legati all’età o allo stato di salute, prestandogli cura, assistenza e sostegno diretto per tutte le necessità della vita quotidiana.
Attualmente sono in corso di esame in commissione al Senato, assegnati alla 11ª Commissione permanente (Lavoro pubblico e privato, previdenza sociale) in sede redigente, due diversi disegni di legge in materia: il d.d.l. n. 55 del 2020, avente titolo «Disposizioni per il riconoscimento e il sostegno dell’attività di cura e assistenza familiare» e il d.d.l. n. 1461 del 2020, rubricato «Disposizioni per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare».
In entrambi ci si preoccupa innanzitutto di mettere in luce la situazione in cui versa il nostro Paese, dove, secondo il rapporto del CENSIS 2015[2], sono più di tre milioni le persone che soffrono di difficoltà funzionali gravi e, con l’allungamento della vita media, le previsioni stimano un aumento delle persone con disabilità, con una consequenziale crescita della domanda di cure e di assistenza. Si è inoltre calcolato che oltre 2.500.000 persone non autosufficienti rimangano a vivere presso la propria abitazione o quella di parenti, ammontando al 18 per cento della popolazione, pari a più di tre milioni di persone, coloro che nel contesto familiare si prendono cura regolarmente di parenti anziani, malati o con disabilità[3].
Negli interventi legislativi proposti viene ripresa la definizione della figura in esame contenuta nella L. 27 dicembre 2017, n. 205, comma 255, dove si legge che «si definisce caregiver familiare la persona che assiste e si prende cura del coniuge, dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto ai sensi della legge 20 maggio 2016, n. 76, di un familiare o di un affine entro il secondo grado, ovvero, nei soli casi indicati dall’articolo 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, di un familiare entro il terzo grado che, a causa di malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, o sia titolare di indennità di accompagnamento ai sensi della legge 11 febbraio 1980, n. 18». Rispetto a tale definizione, il d.d.l. n. 1461/2020 aggiunge il riferimento alla gratuità del lavoro prestato dal caregiver, precisando altresì il suo carattere continuativo, mentre entrambi i disegni di legge si preoccupano di specificare che l’attività di cura del caregiver familiare si svolge con le modalità più opportune in relazione alla situazione di bisogno della persona assistita, in particolare occupandosi di assistere e prendersi cura della persona e del suo ambiente domestico, di sostenerne la vita di relazione, di concorrere al suo benessere psico-fisico, di aiutarla nella mobilità e nel disbrigo delle pratiche amministrative, di rapportarsi con gli operatori del sistema dei servizi sociali, socio-sanitari e sanitari professionali che forniscono attività di assistenza e di cura[4].
2. La tutela del caregiver come obiettivo dei disegni di legge in materia
Gli interventi legislativi in materia si pongono innanzitutto l’obiettivo di dare riconoscimento e tutela giuridica al caregiver familiare, in ragione del «valore sociale ed economico connesso ai rilevanti vantaggi che dalla sua opera trae l’intera collettività»[5].
In concreto, il riconoscimento formale del caregiver familiare sarà affidato al sistema integrato dei servizi sociali, socio-sanitari e sanitari delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, che costituiscono altresì il servizio competente per le richieste di intervento per la valutazione multidimensionale delle persone in situazione di non autosufficienza o di disabilità. In particolare, ai loro uffici sarà affidato il compito di determinare il contributo di cura e di attività del caregiver familiare nonché le prestazioni, gli ausili, i contributi e i supporti che i servizi sociali, sanitari e assistenziali si impegnano a fornirgli[6].
Gli ulteriori interventi di sostegno si articolano in due fasi: la prima prevede attività di valorizzazione del ruolo del caregiver familiare[7], mentre la seconda fase istituisce misure concrete in termini di rapporti con il datore di lavoro, previdenza e detrazioni.
Sul primo punto, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano adottano le iniziative necessarie ad assicurare al caregiver familiare un’informazione puntuale ed esauriente sulle problematiche della persona assistita, sui suoi bisogni assistenziali e sulle cure da seguire, sui criteri di accesso alle prestazioni sociali, socio-sanitarie e sanitarie, nonché sulle diverse opportunità e risorse esistenti nel territorio a tal fine. In quest’ottica sono previste altresì opportunità formative e di supporto al caregiver familiare, anche sotto il profilo psicologico, e misure di sostegno per quanto riguarda l’assistenza di base tramite personale appositamente qualificato o attraverso reti solidali, con l’obiettivo di ridurre il possibile isolamento sociale del caregiver familiare, assicurandogli un contesto sociale di supporto e misure per facilitare la gestione quotidiana della persona assistita, come ad esempio la domiciliarizzazione delle visite specialistiche nei casi di difficoltà di spostamento[8].
In questo primo gruppo di interventi rientrano anche azioni di sensibilizzazione[9] della popolazione sul valore sociale di tale figura, mediante l’istituzione della Giornata nazionale in suo onore[10] e la promozione di apposite campagne d’informazione.
Come anticipato, un secondo gruppo di norme è volto a dare un concreto sostegno ai caregiver che svolgono anche un’attività lavorativa, riconoscendo loro i medesimi permessi previsti dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104[11], prevedendo altresì una serie di misure dirette a garantire loro una maggiore flessibilità oraria[12], attraverso il diritto ad una rimodulazione dell’orario di lavoro e l’utilizzo della modalità di lavoro agile, cui si affianca il diritto di scegliere, laddove possibile, la sede di lavoro più vicina alla residenza dell’assistito[13], nonché l’istituzione di un fondo ferie solidale per il sostegno della conciliazione dell’attività lavorativa e di quella di cura e di assistenza prestata dal caregiver familiare.
A ciò si aggiunge la previsione di premi agevolati per i contratti di assicurazione eventualmente stipulati dal caregiver familiare per la copertura assicurativa degli infortuni o della responsabilità civile collegati all’attività prestata[14], nonché il riconoscimento di detrazioni sulle spese sostenute[15].
A livello previdenziale anche il caregiver familiare non lavoratore avrà diritto alla copertura di contributi figurativi, equiparati a quelli da lavoro domestico, a carico dello Stato, nel limite complessivo di tre anni.
È prevista infine l’attivazione di specifici programmi per il supporto alla collocazione o al reinserimento lavorativo dei caregiver familiari al termine della loro attività di cura e di assistenza, tramite interventi e azioni di politica attiva nell’ambito dei servizi per l’impiego. A tal fine, l’esperienza maturata nell’attività di cura e di assistenza potrà essere riconosciuta come competenza certificabile dagli organismi abilitati all’inserimento lavorativo, in particolare potrà essere valutata come credito formativo per l’acquisizione della qualifica di operatore sociosanitario o di altre figure professionali dell’area socio-sanitaria, nonché, per i caregiver familiari inseriti in percorsi scolastici, come crediti formativi per attività extrascolastiche[16].
Prima ipotesi di qualificazione: gli obblighi di assistenza dei figli verso i genitori
I disegni di leggi sottoposti a disamina mirano a garantire una tutela ad ampio spettro al caregiver, il quale, svolgendo un’attività fornita spontaneamente e gratuitamente all’interno del contesto familiare, non gode della protezione che spetta invece a chi svolge questo tipo di lavoro professionalmente nell’ambito di un rapporto di impiego con l’assistito[17].
Da qui nascono le principali difficoltà in merito alla sua qualificazione, considerato che, non trattandosi di una forma di attività contrattualizzata, è necessario cercare altrove il suo fondamento giuridico.
Un ulteriore problema riguarda il fatto che non sempre l’attività svolta dalla figura in esame può essere ricondotta ai doveri di mantenimento dei genitori verso i figli, previsti agli artt. 147, 315 bis e 316 bis c.c.[18], oppure agli obblighi alla reciproca assistenza morale e materiale che sussistono tra i coniugi alla luce dell’art. 143, comma 2, c.c.[19]: molte volte, infatti, sono i figli a doversi occupare dei genitori anziani[20], oppure ancora – non di rado – tale attività è svolta da un altro membro della famiglia, come un/a cugino/a o un/a affine dell’assistito (es. la nuora), pur in presenza di parenti “stretti” (es. i figli)[21].
Proprio tali situazioni saranno oggetto della presente indagine, iniziando con l’analizzare il caso in cui il caregiver sia figlio della persona assistita. Possiamo osservare innanzitutto che il codice civile non contiene indicazioni che consentano di configurare un vero e proprio dovere dei figli di mantenere i genitori. A tal fine si può infatti richiamare solamente l’art. 315 bis, comma 4, c.c., dove si prevede in realtà che «Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa»: dalla lettura della norma in commento emerge che la limitazione temporale legata alla situazione di convivenza con i genitori non sembra consentire l’estensione del dovere di contribuzione oltre il periodo indicato, suggerendo che la disposizione sia stata originariamente pensata con riferimento a figli – se non ancora minori – quanto meno molto giovani, e non invece, come nel caso in esame, a figli adulti che si occupano dei genitori anziani[22].
A questo limite temporale se ne aggiunge uno di tipo contenutistico, dato che il riferimento al dovere di rispettare i genitori, previsto nella prima parte della norma, costituisce un obbligo generico[23], non suscettibile di far sorgere gli specifici doveri di assistenza morale e materiale dei figli verso i genitori, che caratterizzano invece l’attività del caregiver familiare.
Altrettanto si può dire con riferimento alla disciplina contenuta nel codice penale, sebbene sia previsto all’art. 570 c.p. il reato rubricato come «violazione degli obblighi di assistenza familiare»[24], che potrebbe far pensare al caso di cui ci occupiamo. In realtà sotto questo nome si collocano tre distinte figure di reato[25], riguardanti rispettivamente la violazione di un generico dovere di assistenza inerente «alla potestà dei genitori, alla tutela legale, o alla qualità di coniuge»; le condotte di malversazione o dilapidazione dei beni appartenenti al figlio minore o al coniuge; e infine il comportamento di chi «fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge».
Secondo la dottrina prevalente gli obblighi ivi sanzionati sono quelli già riconosciuti dal codice civile nell’ambito del diritto di famiglia[26], riconducibili, per quanto riguarda il primo comma, agli obblighi di mantenimento dei genitori verso i figli e all’obbligo di assistenza morale e materiale tra i coniugi[27], mentre, per quanto riguarda il secondo comma, all’obbligo di prestare gli alimenti da chi vi sia legalmente tenuto: ne segue che la norma penale in esame non può essere considerata come fonte di nuovi obblighi per i membri della famiglia.
La medesima conclusione vale anche per un’altra norma penale di contenuto affine, prevista dall’art. 591 c.p.[28], che punisce chiunque abbandoni «una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura». In questo caso il bene giuridico protetto non è il rispetto dell’obbligo di assistenza in quanto tale, come nell’art. 570, ma il pericolo per l’incolumità fisica derivante dall’inadempimento degli obblighi di custodia e di cura.
Giova evidenziare che nella disciplina della norma in esame tali obblighi si differenziano tra loro perché il dovere di custodia implica una relazione tra l’agente e la persona offesa che può sorgere semplicemente dall’esistenza di una mera situazione di fatto, essendo sufficiente che il soggetto passivo sia entrato nella sfera di disponibilità e di controllo dell’agente[29]. Sebbene quindi la platea dei destinatari di tale obbligo sia molto ampia, tuttavia il suo contenuto è limitato alla custodia e alla sorveglianza, non potendosi trarre da esso obblighi di maggiore estensione.
Per quanto riguarda invece il dovere di cura di cui all’art. 591 c.p., si ritiene in dottrina che esso sorga esclusivamente da valide fonti giuridiche formali[30], riconducendoci per questa via nuovamente agli obblighi contemplati dal codice civile nell’ambito della famiglia, dove abbiamo già visto l’assenza di uno specifico dovere dei figli di provvedere all’assistenza e alla cura dei genitori anziani[31].
Seconda ipotesi: l’obbligo di prestare gli alimenti
Non si rivelano utili al nostro caso nemmeno le norme in materia di obbligo di prestare gli alimenti[32], benché esse contemplino tra i soggetti obbligati un’ampia cerchia di familiari, tra cui figli (art. 433 n. 2, c.c.), generi e nuore (art. 433, n.4, c.c.). La ragione, come vedremo, risiede nel contenuto stesso dell’obbligo alimentare, così come descritto all’art. 438, comma 1°, c.c., secondo il quale «Gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento».
La norma in esame indica come presupposto lo stato di bisogno dell’alimentando, inteso come mancanza dei mezzi necessari a soddisfare i bisogni primari dell’individuo[33], laddove quest’ultimo sia privo dei mezzi di sussistenza idonei a consentigli una vita dignitosa: per questo motivo, tale obbligo è considerato diretto a tutelare il diritto alla vita ed è annoverato «fra i diritti fondamentali di solidarietà che si realizzano attraverso l’altrui cooperazione»[34].
Sebbene, come è stato osservato[35], la situazione di bisogno potrebbe astrattamente estendersi a ricomprendere anche la persona anziana che necessiti di assistenza e di cure, tuttavia sono due gli elementi che impediscono una simile operazione ermeneutica.
Il primo riguarda la misura degli alimenti, i quali – secondo l’art. 438, comma 2, c.c. – «devono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Non devono tuttavia superare quanto sia necessario per la vita dell’alimentando, avuto però riguardo alla sua posizione sociale». Da qui si desume che la prestazione in oggetto sia limitata a quanto consente al beneficiario di godere di una vita dignitosa[36], mentre l’attività del caregiver familiare comporta un impegno pieno e spesso totalizzante volto alla cura di tutti gli aspetti della vita dell’assistito, andando ben oltre gli stretti spazi della prestazione alimentare.
Il secondo elemento attiene invece al carattere squisitamente patrimoniale di quest’ultima[37], dato che si limita a considerare come presupposto una condizione economica di indigenza tale da concretare lo stato di bisogno, mentre, nel nostro caso, l’assistito ben potrebbe essere economicamente sufficiente, ma ugualmente bisognoso di cure e di assistenza.
Inoltre, sempre su questa linea, l’art. 443 c.c. prevede due modalità per soddisfare l’obbligo di alimenti, una in via diretta, ossia «accogliendo e mantenendo nella propria casa colui che vi ha diritto»[38], e una in via indiretta, attraverso la corresponsione di un assegno. Rispetto a quest’ultima modalità risultano senza dubbio esclusi gli obblighi di cura e di assistenza che caratterizzano l’attività del caregiver[39], ma altrettanto si può dire per l’ipotesi di somministrazione degli alimenti in via diretta, la quale non implica in nessun modo un impegno maggiore di quello che potrebbe essere assolto tramite l’assegno.
Terza ipotesi: il dovere morale o sociale fondato sul principio di solidarietà familiare
Le difficoltà sopra considerate in merito alla possibilità di ricondurre l’attività svolta dal caregiver familiare alla disciplina della filiazione e all’obbligo alimentare segnano la strada verso un’ipotesi residuale, consistente precisamente nei doveri morali o sociali, richiamati dall’art. 2034 c.c. in tema di obbligazioni naturali. La formula utilizzata dal legislatore in tale disposizione è “tendenzialmente aperta”, comportando l’«esplicita ammissione della possibilità che vi siano obbligazioni naturali oltre ai casi specificamente previsti»[40]: ne segue che, per la sua stessa genericità[41], ben potrebbe adattarsi a descrivere anche la figura in esame[42].
Per doveri morali e sociali rilevanti ai fini dell’art. 2034 c.c. si intendono – ormai unanimemente[43] –i doveri che abbiano un valore morale riconosciuto e condiviso dalla società[44], mentre ne sono esclusi quelli che appartengono esclusivamente alla sfera del singolo individuo[45], così come quelli che attengono alla sola dimensione sociale, come il galateo, la cortesia e il decoro. Inoltre, è richiesto altresì che tali doveri siano sufficientemente determinati e tipizzati, non potendosi attribuire riconoscimento giuridico ad un astratto dovere di aiutare gli altri o di soccorrere chi si trovi in stato di indigenza[46].
A questo punto, non c’è dubbio che sia il requisito della dimensione sociale, sia quello della tipicità e determinatezza siano abbondantemente soddisfatti nel caso dell’attività di cura e di assistenza svolta da un parente o un affine a favore di un altro membro della famiglia, trovando inoltre un sicuro sostegno normativo nel principio di solidarietà familiare, riconosciuto anche a livello costituzionale[47] agli artt. 29, 30, 31, 36 Cost.. Se a ciò si aggiunge che, proprio come richiesto dall’art. 2034 c.c., ricorrono altresì i requisiti della spontaneità della prestazione e della capacità di chi l’esegue[48], si può concludere con certezza che la fattispecie dell’obbligazione naturale possa trovare accoglimento anche nel caso in esame. Su questa linea, trova quindi conferma l’affermazione secondo cui il ricorso ai doveri morali e sociali permette all’ordinamento di assorbire «valori ed istanze etiche affioranti dal corpo sociale, sì da garantirsi una costante sintonia con l’evoluzione del costume, della cultura e via dicendo»[49], restando infine da capire se una simile soluzione offra al caregiver una qualche forma di tutela.
(Segue) I relativi profili problematici
La disciplina che il codice civile appresta per le obbligazioni naturali è condensata nell’art. 2034 c.c., a norma del quale «la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato», aggiungendo infine che tali obbligazioni «non producono altri effetti». Ciò significa che il dovere morale non è fonte di un’obbligazione civile della quale si può chiedere in giudizio l’adempimento coattivo, ma tuttavia, se questo viene eseguito in maniera spontanea, si realizza la c.d. soluti retentio, ossia il diritto di trattenere la prestazione per chi l’ha ricevuta, con la conseguente perdita del diritto di ottenerne la restituzione per chi l’ha eseguita[50].
Come si può intuire, l’applicazione di tale disciplina non è certamente favorevole per il caregiver, impedendogli di ottenere sia il rimborso delle spese sostenute per il fabbisogno e le esigenze dell’assistito, sia la quantificazione monetaria della sua attività di cura e di assistenza, considerato che quest’ultima configura senza dubbio una prestazione suscettibile di valutazione economica, come dimostra il fatto che può essere anche oggetto di un rapporto di lavoro a carattere professionale[51].
Un simile scenario si prospetta fonte di possibili controversie tra il caregiver e gli altri membri della famiglia, sia nel caso in cui solamente uno dei figli dell’assistito si presti a svolgere l’attività di cura e di assistenza del genitore, sia nel caso in cui tale figura sia ricoperta da un diverso membro della famiglia, come una nuora o un genero, soprattutto laddove il rapporto da cui è nato il legame di affinità venga meno successivamente, ad esempio, per divorzio.
L’applicazione della disciplina dell’obbligazione naturale non sembra quindi rispondere ad esigenze di giustizia, lasciando infatti priva di tutele la persona che, mossa dall’affetto e dai legami familiari, si sia fatta carico di un’attività che comporta spesso grandi sacrifici, non solo in termini di spese ed esborsi, ma anche di tempo e dedizione. D’altra parte, i disegni di legge precedentemente analizzati, pur essendo senza dubbio meritevoli in quanto attribuiscono finalmente riconoscimento giuridico all’attività svolta dal caregiver familiare, tuttavia forniscono una tutela limitata ai rapporti “esterni”, ossia alle relazioni con le istituzioni, la pubblica amministrazione, il personale sanitario o il datore di lavoro, ma non si spingono a regolare i rapporti “interni” con gli altri membri della famiglia, ambito che invece dovrebbe essere preso in considerazione per poter fornire una piena tutela a tale figura.
[1] Tra i numerosi disegni di legge presentati in materia negli ultimi anni si veda ad esempio il d.d.l. n. 3527/2016, rubricato «Disposizioni per il riconoscimento e il sostegno dell’attività di cura e assistenza familiare», presentato il 12 gennaio 2016; oppure il d.d.l. n. 2128/ 2017 riguardante «Norme per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare»; il d.d.l. n. 2266/ 2017 «Legge quadro nazionale per il riconoscimento e la valorizzazione del caregiver familiare»; il d.d.l. n. 2048 «Misure in favore di persone che forniscono assistenza a parenti o affini anziani».
[2] Per questo dato si è fatto riferimento in particolare al prologo del d.d.l. n. 55/2020, qui in commento.
[3] Dati tratti dal Rapporto Istat 2019, Conoscere il mondo della disabilità: persone, relazioni e istituzioni, disponibile in <www.istat.it>.
[4] Precisamente si vedano art. 2, comma 2, d.d.l. 55/2020, e art. 1, comma 2, d.d.l. n. 1461/2020.
[11] Sulle quali si rinvia in dottrina a B. de Mozzi, Permessi ex L. n. 104/1992 e ordinarie incombenze di vita dell’assistito, in Lavoro nella Giur., 2019, 4, 351; G. Leone, Gravi motivi e patologie invalidanti nella concessione del congedo ex art. 42, c.5, D.LGS. N. 151/2001: il corto circuito dell’I.N.P.S., in Lavoro nella giur., 2020, 12, 1200; V. Lamonaca, Indebita fruizione dei permessi ex lege n. 104/1992 e valutazione di proporzionalità del licenziamento, in Lavoro nella giur., 2020, 4, 361.
[12] Tema trattato in entrambi i disegni di legge, in particolare art. 7, comma 1, d.d.l. n. 1461/2020 e art. 5, comma 5, lett. a), d.d.l. n. 55/2020. Per la dottrina in materia si veda E. Longo, La rilettura dei diritti sociali passa per il congedo straordinario a tutela di un parente disabile, in Giur. cost., 2013, 4, 2853 (nota a Corte Costituzionale, 18 luglio 2013, n. 203).
[13] Ne tratta L. Marchesini, Il caregiver familiare e il diritto alla scelta della sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere, in Ilgiuslavorista.it, 10 giugno 2019, 1 (nota a Cass., 1 marzo 2019, n. 6150).
[14] Cfr. art. 5. d.d.l. n. 1461/2020 e art. 6 d.d.l. n. 55/2020.
[15] Vedi in particolare art. 9, d.d.l. n. 1461/2020, rubricato «Detrazioni per carichi di famiglia».
[16] Così art. 5, d.d.l. n. 55/2020, rubricato «Valorizzazione e sostegno della conciliazione tra attività lavorativa e attività di cura e di assistenza».
[17] Questo particolare aspetto è trattata da J. Long, La contrattualizzazione dell’assistenza vitalizia agli anziani: dalla rendita vitalizia al contratto di mantenimento, in Nuova giur. civ. comm., 2010, 12, 601, dove individua numerose forme in cui la prestazione di assistenza e di cura può essere contrattualizzata, specificando che «talvolta invece è una persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, con la conseguenza che deve applicarsi la disciplina prevista per i contratti del consumatore (pensiamo ai contratti di ospitalità conclusi con una casa di riposo o ai contratti di assicurazione long term care).[…]. Di solito sono contratti a prestazioni corrispettive (es. contratto di collaborazione domestica); più raramente sono misti a donazione (es. contratto che disponga il trasferimento di un immobile quale corrispettivo di una prestazione di assistenza di valore significativamente inferiore al prezzo di mercato dello stesso».
[18] Per un’analisi degli obblighi di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli si rinvia diffusamente a G. Bonilini, Nozioni di diritto di famiglia, Torino, 2002, 173; A. Figone, Sul mantenimento del figlio in regime di divorzio, in Fam. dir., 1995, 4, 358; L. Balestra, Brevi notazioni sulla recente legge in tema di affidamento condiviso, in Familia, 2006, 663 ss.; E. Quadri, Affidamento dei figli e assegnazione della casa familiare: la recente riforma, in Familia, 2006, 410 ss; C.M. Bianca, Diritto civile. La famiglia, Milano, 2017, 365; A. Arceri, L’affidamento condiviso. Nuovi diritti e nuove responsabilità nella famiglia in crisi, Milano 2007, 155; G.A. Parini, L’assegno periodico di mantenimento nei rapporti con l’interesse morale del figlio, in Fam. dir., 2021, 11, 1027; P. Vercellone, I rapporti genitori-figlio. I doveri di entrambi, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, II, Filiazione, 2012, 951; G.F. Basini, I provvedimenti riguardanti i figli nella crisi familiare, in Il diritto di famiglia, in Tratt. Bonilini-Cattaneo, Torino 2007, I, 2, 1055 ss.; F. Ruscello, Il rapporto genitori-figli nella crisi coniugale, in Nuova giur. civ. comm., 2011, 2, 402. T. Auletta, Il diritto di famiglia, Torino, 2011, 7 ss.; G. Ferrando, Genitori e figli nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Fam. dir., 2009, 11, 1049; P. Morozzo della Rocca, Il mantenimento del figlio: recenti itinerari di dottrina e giurisprudenza, in Fam. dir., 2013, 4, 385; V. Carbone, Le riforme generazioni del diritto di famiglia: luci ed ombre, in Fam. dir., 2015, 11, 972; O. Clarizia, Innovazioni e problemi aperti all’indomani del decreto legislativo attuativo della riforma della filiazione, in Riv. dir. civ., 2014, 3, 10597.
[19] A tal proposito, si concorda senza dubbio con la riflessione di M.N. Bugetti, Riflessioni sul ruolo della famiglia nella cura degli anziani (anche in riferimento ad un recente intervento del legislatore cinese), in Fam. dir., 2013, 12, 1151, dove riconosce che «un vero e proprio dovere è sancito a ben vede nei confronti del coniuge dall’art. 143 c.c., ancorché è evidente come sul piano pratico esso abbia effetti limitati, presumibilmente trovandosi anche il coniuge dell’anziano non autonomo in condizioni di bisogno identiche o simili».
[20] Il tema della tutela degli anziani è stato affrontato approfonditamente da P. Stanzione, Anziani e tutele giuridiche, in Quaderni della rassegna di diritto civile, Napoli, 1991, 22 ss.; S. Patti, Senilità e autonomia negoziale della persona, in Fam. pers. succ., 2009, 3, 259.
[21] Per i rapporti sussistenti tra i membri della famiglia si rinvia a P. Perlingieri, Rapporti personali nella famiglia, in Quaderni della rassegna di diritto civile, Napoli, 1982, 55 ss.
[22] Concorda con tale conclusione anche M.N. Bugetti, op. cit., 1152, dove osserva appunto che «si è tuttavia esclusa l’applicazione analogica della norma, in ragione del fatto che pare inconferente al tema del mantenimento dei genitori anziani una disposizione che si colloca nell’ambito dei doveri corrispettivi al diritto al mantenimento spettante al figlio minore».
[23] Sul punto, si veda ancora quanto affermato da M.N. Bugetti, op. cit., 1155: «Può infine esperirsi il tentativo di ricavare un generale diritto del genitore anziano all’assistenza nei confronti del figlio dal dettato dell’art. 315 bis c.c. il quale sancisce il dovere del figlio di rispettare i genitori; tale dovere, è stato osservato, non è in sé connesso alla minore età del figlio, cosicché esso persiste anche in capo al figlio maggiorenne. Nonostante il dato letterale della norma non lasci adito a dubbi circa la qualificazione del rispetto quale vero e proprio dovere, parte della dottrina esclude si tratti di obbligo giuridico in senso stretto, ancor più a cagione della inesistenza di una sanzione in caso di inadempimento, connotandosi di contro come dovere morale, insuscettibile di essere coercito. Benché dunque la norma superi le anguste strettoie delle prestazioni di carattere patrimoniale, essa difficilmente può costituire fondamento per la individuazione di un generale obbligo di assistenza dei figli nei confronti dei genitori».
[24] Ai sensi dell’art. 570 c.p.: «Chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori, alla tutela legale, o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da centotre euro a milletrentadue euro. Le dette pene si applicano congiuntamente a chi: 1) malversa o dilapida i beni del figlio minore o del pupillo o del coniuge; 2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa. Il delitto è punibile a querela della persona offesa salvo nei casi previsti dal numero 1 e, quando il reato è commesso nei confronti dei minori, dal numero 2 del precedente comma».
[25] Si vedano sul punto E. Antonini, La tutela penale degli obblighi di assistenza familiare, Milano, 2007, 51; R. Carrelli Palombi, La violazione degli obblighi di assistenza familiare, Torino, 2008, 12 ss.
[26] Secondo G. M. De Matteis, Art. 570 c.p., Codice penale commentato online, aggiornato da M. Lombardo, in leggiditalia.it, si tratta di «obblighi che, secondo l’orientamento ancor oggi prevalente altri non potrebbero esser se non quelli derivanti dai diritti-doveri di carattere materiale ed economico che il codice civile attribuisce al consorzio familiare, seppur non disgiunti dalle implicazioni di carattere morale che dalla loro violazione conseguano». Così anche G.D Pisapia, Delitti contro la famiglia, Torino, 1953, 1 ss.; F. Siracusano, Violazione degli obblighi di assistenza familiare e giusta causa, in DFP, 1975, 477; F. Bricola, Appunti sulla tutela penale della famiglia, in Studi in onore di F. Antolisei, I, Milano, 1996, 38; F. Fierro Cenderelli, Profili del nuovo regime dei rapporti familiari, Milano, 1984, 122.
[27] Ciò emerge anche dal fatto che il primo comma della norma in esame qualifica come soggetti attivi del reato solo il genitore o il coniuge dell’offeso.
[28] Affrontano questa norma in chiave civilistica M. Dogliotti, Ancora sugli anziani cronici non autosufficienti: sono imputabili i parenti o responsabili delle strutture sanitarie?, in Dir. fam., 1993, 1172 e P. Rescigno, L’assistenza agli anziani non autosufficienti: notazioni civilistiche, in Giur.it., 1993, 1, 687.
[29] È quanto afferma M. Ronco, Art. 591 c.p., Codice penale commentato online, aggiornato da M. Lombardo, 1 ss.
[30] Così M. Ronco, Art. 591 c.p., cit., 1 ss. Per la giurisprudenza sul punto si rinvia a Trib. Rovigo, 8 giugno 1992, in Giur. merito, 1994, 141 con nota di De Rosa, dove era stata ritenuta l’insussistenza del fatto per mancanza di un obbligo di cura o custodia in capo alla figlia e al genero nei riguardi della madre e suocera anziana. Per sentenze più recenti si rimanda a Cass, 19 luglio 2021, n. 27926 e Cass., 12 maggio 2021, n. 18665, in CED Cassazione, 2021; Cass., 4 dicembre 2019, n. 49318, in CED Cassazione, 2019; Cass., 12 gennaio 2016, n. 19448, in CED Cassazione 2016.
[31] Nello stesso senso, si rinvia inoltre a M.N. Bugetti, op. cit., 1155, dove analizza gli sforzi di una parte della dottrina che ha provato a ricavare tali doveri in via ermeneutica, ricorrendo alla disciplina penalistica del reato di abbandono di persone minori o incapaci. Tuttavia l’A. riconosce che da tale norma non possa comunque «inferirsi un generale dovere di assistenza e cura del figlio nei confronti del genitore anziano non autosufficiente».
[32] Per la dottrina in materia si rinvia a L. Vignudelli, L’adempimento dell’obbligazione alimentare, fra solidarietà sociale e vincolo giuridico, in Fam. dir., 2019, 12, 1137; R. Pacia, Gli alimenti, in Fam. pers. succ., 2010, 10, 681; P. Morozzo della Rocca, Doveri di solidarietà familiare e prestazioni di pubblica assistenza, in Fam. dir., 2013, 7, 730; G. Grasso, La controversia in “materia di obbligazioni alimentari” nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Cassazione, in Fam. dir., 2010, 8-9, 821; A. Figone, La Corte Costituzionale si pronuncia sui crediti alimentari e di mantenimento, in Fam. dir., 2000, 6, 537; P. Mori, Rapporti di famiglia, adozione, protezione degli incapaci e obblighi alimentari, in Corriere giur., 1995, 11, 1243.
[33] Così G. Provera, Alimenti, in Dig. disc. priv. online, 1987, 1 ss.
[34] La citazione è di C. M. Bianca, Diritto civile, II, 4a ed., Milano, 2005, 480.
[35] Si veda in particolare M.N. Bugetti, op. cit., 1151 ss., dove sostiene che “La condizione oggettiva di bisogno in cui deve versare l’alimentando è concetto sufficientemente elastico perché possa esservi annoverato anche chi, come l’anziano, sia in condizione di età e di salute tale da non poter provvedere da sé a procurarsi i mezzi necessari per vivere”.
[36] Sul punto si rinvia a M. Sala, Art. 433, Persone obbligate, aggiornato da F. Spotti, in Cod. civ. comm. online, <leggiditalia.it>, dove si nota inoltre che la misura particolarmente limitata degli alimenti «si desume, tra l’altro, dal disposto dell’art. 439, comma 1°, che limita l’obbligo tra fratelli e sorelle nella misura dello stretto necessario». Si veda inoltre anche A. Landini, Diritto agli alimenti e pagamento delle rette della casa di cura, in Fam. pers. succ., 2011, 1, 35.
Per la giurisprudenza sul punto si veda Cass. 3 dicembre 2021, n. 38366, in CED Cassazione, 2021 dove si afferma che «l’obbligazione alimentare [è] da azionarsi nell’ambito familiare per supplire ad ogni più essenziale esigenza di vita dell’individuo bisognoso». Nello stesso senso, si rinvia anche a Cass., 10 marzo 2022, n. 7760, in Ced Cassazione, 2022; Cass., 14 febbraio 2022, n. 4794, in Quotidiano giur., 2022; Cass., 10 febbraio 2022, n. 4388, in Ced Cassazione, 2022; Cass., 14 settembre 2020, n. 19077, in Fam. dir., 2021; Cass., 10 ottobre 2018, n. 25134, in Ced Cassazione, 2018; Trib. Ancona, 6 ottobre 2021.
[37] In proposito si rimanda a M.N. Bugetti, op. cit., 1151 ss., dove afferma che «in via incidentale, preme evidenziare come il menzionato assetto legislativo testimoni il carattere (tuttora) patrimoniocentrico del nostro sistema civilistico», aggiungendo che «più in generale, il richiamo seppur rapido agli obblighi alimentari consente di evidenziare gli angusti limiti ai quali essi sono legati, con la conseguenza che altrettanto esigui sembrano essere gli appigli per fondare su tale istituto un dovere di assistenza del figlio nei confronti del genitore anziano».
[38] Per un commento si rinvia a M. Sala, L’obbligo alimentare fra onere della prova e modalità di adempimento, in Fam. pers. succ., 2011, 8-9, 579; B. Paparo, L’obbligazione alimentare a carico dei fratelli, i diritti costituzionalmente garantiti dell’alimentando e le modalità di adempimento, in Corriere merito, 2011, 3, 253; R. Pacia, Decorrenza degli alimenti legali e natura costitutiva del provvedimento giudiziale, in Riv. dir. civ., 2011, 1, 53.
[39] Si condividono pienamente le parole di M.N. Bugetti, op. cit., 1151 ss., dove osserva che «a differenza del mantenimento, gli alimenti non implichino una condivisione di vita tra i soggetti, ed, anzi, ne presuppongono una certa separatezza ed autonomia, come anche dimostra il fatto che l’accoglimento dell’alimentando nella propria casa da parte dell’obbligato sottintende che siano entrambi i soggetti a volerlo. Ne consegue che l’adempimento dell’obbligo alimentare risulta soddisfatto mediante la corresponsione di denaro o altri beni, lasciando invece esclusi obblighi di cura della persona. In ciò si manifesta la più rilevante aporia del sistema alimentare con riferimento alla materia oggetto di indagine, ovverosia il fatto che gli alimenti sono diretti a soddisfare bisogni di carattere materiale mediante l’erogazione di una somma di denaro, rimanendone del tutto estranea l’esigenza che qualcuno si prenda in carico complessivamente la propria assistenza».
[41] D’altra parte, la formula dell’art. 2034 c.c. è stata più volte criticata in dottrina per la sua indeterminatezza e vaghezza, si veda ad esempio M. Sala, Art. 433, Persone obbligate, op. cit., 1 ss.
[42] È interessante osservare che la dottrina più risalente si era interrogata su una situazione analoga, riguardante precisamente l’obbligazione alimentare tra parenti non indicati dalla legge tra gli obbligati a tale prestazione. Si veda in proposito quanto affermato da G. Tamburrino, Alimenti (dir. civ.), in Enc. del dir., II, 1958, 32: «poiché, come si è visto, il vincolo alimentare sussiste in ordine soltanto ad uno stretto gruppo di componenti l’entità familiare, si è posto il quesito se, nella ipotesi in cui un parente, non rientrante in alcuna delle categorie di legge, presti volontariamente gli alimenti ad altro parente bisognoso, tale prestazione costituisca l’adempimento di una obbligazione naturale, il che vuol dire domandarsi, dato che nel vigente ordinamento l’unico effetto dell’obbligazione naturale è la soluti retentio (art. 2034), se nella detta ipotesi il parente, che ha prestato gli alimenti, possa agire per la restituzione. Entrambe le risposte, l’affermativa e la negativa, sono state date dalla dottrina”, concludendo che “allorché devesi decidere se in un determinato caso vi sia obbligazione naturale o meno occorre vedere se possa ritenersi che il comportamento del soggetto sia stato posto in essere in base ad un dovere che, secondo l’etica sociale vigente, possa ritenersi sussistente e vincolante dal punto di vista morale e sociale. Orbene, nel campo che ne occupa, non può dirsi che il dovere morale e sociale di assistere il parente bisognoso, anche oltre i limiti di legge, non sia sentito: il vincolo familiare morale è ancora talmente forte da giustificare il comportamento del parente abbiente. Né vale il ricordare che in realtà vi sono parenti che non si conoscono nemmeno: in questo caso il parente abbiente non sentirà il bisogno di aiutare quello indigente e niuna norma ve lo obbliga. Ma, nel caso in cui quel dovere sia sentito ed operante, non potrà farsi luogo a domanda di restituzione».
[43] Vedi, per tutti, G. Ferrando, Alimenti, in Dig. disc. priv. online, 2000, 1 ss.
[44] Si rinvia sul punto a L. Nivarra, Obbligazione naturale, in Dig. disc. priv. online, 1995, 1 ss., in cui osserva che «soltanto i valori condivisi dalla generalità possono aspirare alla sanzione di rilevanza implicita nell’art. 2034, comma 1, c.c.”; si veda anche P. Gallo, Art. 2034, in Cod. civ. comm. online, leggiditalia.it, 1 ss., secondo cui “i doveri che assumono rilevanza sono doveri di natura “morale” che fanno parte del bagaglio collettivo della società».
[45] Approfondisce questo aspetto E. Moscati, Obbligazioni naturali (dir. civ.), in Enc. del dir., XXIX, 1979, 369, di cui si riportano le parole: «Nel tentativo di precisare la portata della formulazione dell’art. 2034 comma 1 si è cominciato con il rilevare che il richiamo ai doveri morali o sociali non sta ad indicare una contrapposizione tra due categorie di doveri diversi, quelli morali da un lato e quelli sociali dall’altro, poiché il legislatore ha inteso riferirsi soltanto ai doveri che sono ad un tempo morali e sociali. Si aggiunge, infatti, che almeno secondo il comune apprezzamento ogni dovere sociale è anche morale, mentre non può dirsi che ogni dovere morale sia anche sociale. Il collegamento con la morale sociale consente di escludere dal novero delle obbligazioni naturali i doveri della morale individuale, quali sono, ad esempio, i precetti della vita religiosa e, più in generale, i doveri che attengono a valutazioni meramente subiettive. Si può senz’altro accedere a questa valutazione, poiché, avendo le obbligazioni naturali un contenuto intrinsecamente omogeneo, i doveri morali richiamati dall’art. 2034 comma 1 non possono essere che i doveri della morale intersubiettiva, cioè i doveri della morale corrente».
[46] In questo senso si veda P. Gallo, op. cit., 1 ss..
[47]Si rinvia ampiamente sul punto a P. Perlingieri, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli, 1972, 191 ss., in particolare 195. Si veda altresì M. Dogliotti, Famiglia (dimensioni della), in Dig. disc. priv. online, 1992, Aggiornamento 2019, 1 ss.; e a G. Ferrando, Alimenti, op. cit., 1 ss., dove mette in luce che il valore che assume la solidarietà nell’ambito della famiglia.
[48] Sulla necessità di questi due requisiti per configurare un’obbligazione naturale si veda E. Moscati, Obbligazioni naturali (dir. civ.), op. cit., 361.
[49] La citazione è di L. Nivarra, Obbligazione naturale, op.cit., 1 ss., dove sottolinea che «è proprio la circostanza che il diritto positivo, per così dire, riconosca se stesso, i suoi valori o principi ispiratori, nel dovere morale o sociale a giustificare il diverso, e più favorevole, trattamento riservato all’obbligazione naturale nel quadro delle prestazioni a titolo gratuito. I doveri di cui all’art. 2034 c.c., infatti, si collocano in una fascia intermedia tra quelli, puramente bagatellari almeno dal punto di vista dell’ordinamento, che in genere vengono assegnati al campo d’azione della cortesia o del galateo e, quelli, di rango superiore, che si riannodano a valori come la pietà, la carità la riconoscenza ecc. In entrambi i casi, per motivi opposti ma convergenti – l’estraneità alla legge di impulsi etici troppo futili o troppo elevati per poter aspirare ad un riconoscimento pieno da parte della legge stessa – la rilevanza giuridica del dovere è subordinata non solo ad una specifica dichiarazione di volontà (analogamente a quanto accade nel caso delle obbligazioni naturali), ma anche al rispetto di taluni requisiti (la forma per la donazione pura e la donazione remuneratoria, la datio per la donazione di modico valore, il cristallizzarsi del dovere in una consuetudine sociale per le liberalità d’uso) che, viceversa, non sono richiesti allorché l’attribuzione patrimoniale poggi su una causa di per sé meritevole di tutela quale, appunto, è la naturalis obligatio».
[50] L’unico effetto collegato a questo tipo di obbligazione è appunto la soluti retentio, con la conseguenza che ne sono escluse l’esecuzione coattiva, così come la compensazione con un’obbligazione civile, la convalida, e infine la possibilità di apporvi garanzie accessorie, come la fideiussione, il pegno o l’ipoteca. Si segnala, per inciso, che la qualificazione in termini di obbligazione naturale impedisce altresì di considerare la prestazione del caregiver come una liberalità, stante la reciproca esclusione tra obbligazione naturale e liberalità. Su questo punto si rinvia diffusamente a U. Carnevali, Liberalità (atti di), in Enc. del dir., XXIV, 1974, 218.
[51] Sul quale si rinvia ancora a J. Long, La contrattualizzazione dell’assistenza vitalizia agli anziani: dalla rendita vitalizia al contratto di mantenimento, in Nuova giur. civ. comm., 2010, 12, 601.
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